martedì 24 giugno 2014

Mi hanno chiamato, e adesso?!

Oh my God, mi hanno chiamato per un colloquio e adesso?? 
Intanto… Keep calm! Respiro profondo e ricorda che si tratterà di una semplice chiacchierata in cui l’oggetto della discussione sei tu e nessuno ti conosce meglio di te stesso!

Primo step: analisi introspettiva!

Ti hanno chiamato e ciò significa che dai mezzi di cui si sono serviti per avere informazioni su di te, ti hanno ritenuto idoneo a poter rivestire una certa posizione per cui ti eri candidato; quindi sentiti già soddisfatto per questo! 
Ti basta concentrarti per qualche minuto (forse meglio un paio di ore ;-)) per riuscire a fare mente locale e produrre un’analisi introspettiva! 
Se avrai qualche difficoltà a definire il campo delle qualità e dei difetti che ti rappresentano, chiedi ad una persona che ti conosce bene di aiutarti; di certo ti sarà di grande aiuto! Ma bada bene a scegliere la cavia che ti faciliterà a fare chiarezza; prediligi gente che crede in te e sa essere obiettiva andando oltre il rapporto che vi lega.

A me piace intenderlo in questi termini… una chiacchierata introspettiva!

Passo successivo: dress code!

Non sottovalutare l’abbigliamento. Il detto “l’abito non fa il monaco” non è particolarmente azzeccato in questo caso. Generalmente sobrietà e semplicità sono le parole chiavi; gli eccessi sono da evitare assolutamente.

Dico di solito e non sempre perché ci sono alcuni campi del mercato del lavoro in cui la creatività è una componente basilare che può essere esternata con qualche particolare rilevante; ed è qui che ci si può permettere un tantino di eccessi, ma giusto un tantino!

Il colloquio è il primo contatto che hai con quel mondo del lavoro in cui vorresti entrare, e non sottovalutarlo è l’atteggiamento ideale.

Terzo step: conosci l’azienda!

Una delle domande tipo che ti faranno sarà: “cosa conosci della nostra azienda?” E in quei casi non puoi avere l’espressione perplessa e persa nel vuoto perché non sai cosa rispondere; non ti è concesso! 
Se ti candidi per una posizione devi conoscere il tuo futuro datore di lavoro. Se non conosci la sua missione aziendale, il suo impegno nel sociale, le opportunità di carriera che offre ai suoi dipendenti, i siti in cui si trovano i loro stabilimenti/uffici … come puoi pretendere che il tuo nome risulti tra i prescelti?! 
L'espressione perplessa e persa nel vuoto non è la dimostrazione giusta da dare per far percepire il tuo forte interesse ad entrare nel loro team! E di certo non cercano gente demotivata!

Quarto step: START!

Sei pronto a sostenere il tuo colloquio. 
E ricorda… è una chiacchierata! Niente di più, niente di meno! :-D


Non mi resta che augurarvi in bocca a lupo e ricordate: Stay cool! Stay calm! :-D



P.S.: Non sono ancora nessuno d’importante nel mondo del recruitment ma aspiro ad esserlo e mi sono chiesta: ma perché non scrivere qualcosa sul tema “colloquio di lavoro” ?! 
Su web si trovano parecchie "dritte" su come gestire il colloquio di lavoro, io ho voluto parlare della fase pre-colloquio, quella in cui ci si prepara per sostenerlo. 
Sarà forse perchè io mi trovo più dal lato candidato che da quello di recruiter ?! :-P 

martedì 22 aprile 2014

di Alda Merini

Quelle come me non tradiscono mai,
quelle come me hanno valori che sono incastrati nella testa come se fossero pezzi di un puzzle,
dove ogni singolo pezzo ha il suo incastro e lì deve andare.
Niente per loro è sottotono,
niente è superficiale o scontato,
non le amiche, non la famiglia, non gli amori che hanno voluto, che hanno creato, difeso e sopportato.
Quelle come me regalano sogni, anche a costo di rimanerne prive.
Quelle come me donano l'anima,
perchè un'anima da sola è come una goccia d'acqua nel deserto.

mercoledì 2 aprile 2014

Personal Branding: come gestirlo.

A parlare per la prima volta di “Personal Branding” fu Tom Peters nel 1997. Il noto guru del Management, con questo termine invitava ogni professionista a considerarsi come una piccola azienda, come un Brand.  
Ma partiamo definendo cos’è il “Brand” nel settore del Marketing; il termine anglosassone, che in italiano può essere tradotto in “marchio”, è una combinazione di elementi con cui si identifica un prodotto o servizio rendendolo identificabile e distintivo rispetto alla concorrenza sul mercato. Il valore di un Brand è l’idea che il pubblico ha del prodotto o dell’azienda nel complesso. Invece, con il concetto di “Branding si rappresenta un approccio di business basato non solo su una strategia legata al prodotto, ma orientata alla vendita del Brand stesso.
Dunque dovremmo paragonare noi stessi, il nostro talento, le nostre hard e soft skill ad un prodotto da vendere? Ebbene si! Data la valenza emotiva e valoriale che trascina con se il brand, quando parliamo di personal branding ci riferiamo al nostro valore personale e al fatto che questo si debba far conoscere. Siamo imprenditori di noi stessi e dobbiamo esser in grado di vendere il nostro talento al miglior offerente; ma affinché ciò avvenga il miglior offerente deve vederci!
Vi starete chiedendo : ma perché mai devo farmi conoscere sul web per vendere il mio valore aggiunto?
Perché nell’era del Web 2.0 (che si attinge a lasciare il posto al Web 3.0) appare necessario farsi conoscere in rete; ovviamente emergere rispetto alla massa per gli aspetti positivi.
Vi sarà sorta un’altra domanda: ma come procedo? Come faccio a farmi conoscere e avere maggiore visibilità sul web per avere dunque un ritorno professionale positivo?
Per rispondere a queste domande, vi propongo delle linee guida da poter seguire:
1.Gestisci il tuo brand come se fossi un manager. Definendo la tua identità (Chi sei? Cosa fai? Quali sono le tue passioni? Come ti presenti? Qual è la tua professione? Quali sono i tuoi obiettivi?) e le tue relazioni (Chi conosci? Chi ti conosce? Chi dovresti conoscere per arrivare al tuo obiettivo?).
2.Definisci chi sei e comunicalo. Scegli i mezzi di comunicazione che preferisci e cura la tua immagine in essi. Il segreto è riuscire a dare una risposta alla domanda: “perché me e non qualcun altro?”
3.Racconta la storia. Raccontati invece di produrre una semplice elencazione di titoli ed esperienze di tirocini. L’obiettivo è suscitare emozioni tramite il racconto. Le aziende cercano persone che possano dare un valore aggiunto al loro team e non numeri asettici decorati di elogi e onori.
4.Maneggia con cura i social network. Sono strumenti potentissimi che possono aiutarti se vengono usati a dovere; prima di premere il tasto Invio, pensa che effetto avrà quel contenuto sul tuo brand
 5.Da relazioni virtuali a relazioni virtuose. Non è profittevole preoccuparsi di avere un follower in più su Twitter o un nuovo collegamento su LinkedIn se poi non concretizzi virtuosamente le relazioni.

Dunque libero sfogo alle vostre/nostre strategie di branding e speriamo ottenere il risultato sperato! ;-) 

venerdì 6 dicembre 2013

Stress da ICT in azienda. Il Tecnostress.

 
 Abstract.  
Era il 1984 quando lo psicologo Craig Brod cominciò ad interessarsi delle dinamiche negative che si creavano nel rapporto workers - machines.
Se da una parte l’era della tecnologia concede grandi benefici (utilità, complessità, affidabilità, velocità, immediatezza) dall’altra risulta produttrice di stress; ci si riferisce a disturbi psico-fisici che condizionano la vita lavorativa e non, delle persone. Questo è quello che viene comunemente definito con il termine Technostress.
Ma quali sono i disturbi? Come si rimedia a questo problema? Qual è in costo che l’organizzazione deve sostenere? E nello specifico: come reagiscono i lavoratori cinesi?
ICT: il gigante da distruggere o sostenere?
Lo stress progredisce quando una persona sperimenta l’incapacità di soddisfare molteplici, talvolta contrastanti, responsabilità oppure quando il livello di difficoltà e complessità dei compiti è abbastanza elevato da non riuscire a superarlo con molta facilità. Questa frustrazione spesso si traduce in malattia fisica, fatica mentale, disturbi generici che portano alla riduzione delle prestazioni sul posto di lavoro[1].
In questa sede, ho intenzione di approfondire il tema dello stress legato alla tecnologia.
Poco meno di 30 anni fa, s’incominciò a parlare del cosiddetto technostress per indicare lo stress derivante dall’uso, sempre più predominante, della tecnologia nel luogo di lavoro che ha effetti negativi su attitudini, pensieri, comportamenti e psicologia umana.
Negli anni, diversi autori si sono occupati di questo tema. Pare che la maggior parte degli studi sia d’accordo nell’aver rivelato che i sintomi più frequenti derivanti dal technostress siano: mal di testa, aumento della frequenza cardiaca e della pressione sanguigna, tensione muscolare, irritabilità e depressione, problemi di memoria, disturbi durante il sonno, nervosismo, aumento della fatica e dell’ansia, problemi intestinali[2]. I disturbi emersi non sono solo di natura fisica, ma altri inconvenienti intaccano la gestione del lavoro dell’unità di analisi presa in considerazione in questa sede: impotenza sul controllo del loro tempo e spazio, sovraccarico di informazioni provenienti da fonti diverse, inondazione di informazioni che si traduce in lavoro che deve essere svolto più velocemente per far fronte alle continue esigenze lavorative, riduzione della fiducia e del confort derivante dall’uso delle tecnologie, avversione e fobia per l’uso del computer. A peggiorare tale realtà è l’annebbiamento dei confini dei due ambiti di analisi portanti; contesto lavorativo e personale. La tecnologia diventa sempre più presente nella vita del lavoratore che risulta impossibile porre confini delimitati e nitidi tra i due contesti; sembra quasi impossibile lasciare il proprio posto di lavoro per essere carichi di energie il giorno dopo. Si registra quindi la necessità di restare sempre collegato e aggiornato alle nuove tecnologie per paura di essere sostituito e quindi perdere il lavoro. Tale condizione viene definita “skill discrepancy”[3], vale a dire la condizione in cui le competenze esistenti non sono sufficienti e le persone passano la maggior parte del loro tempo ad imparare a utilizzare le nuove ICT. Anche compiti semplici come organizzare un file, cambiare o caricare un nuovo software prevedono la presenza di un esperto; tuttavia, questo crea stress da sovraccarico di ruolo[4]. Condizione che risulta in controtendenza al principio di facilitazione del lavoro da ICT, in quanto la gente si aspetta di utilizzare le ICT per velocizzare i loro compiti.
Dunque, questo continuo aggiornamento risulta stressante e frustrante per il lavoratore, soprattutto nella parte iniziale dell’apprendimento alle nuove tecnologie, in quanto gli errori iniziali vengono percepiti con un effetto negativo ingrandito, generando bassa produttività.  
Da uno studio del Reuters Business Information  svolto su un campione di 1.313 giovani, alti e medi manager degli Stati Uniti, Inghilterra, Hong Kong, Singapore, Australia, è stata identificata una malattia denominata “Information Fatigue Syndrome”; il 73% dell’unità di analisi sentiva il bisogno di acquisire enormi quantità di informazioni per avere successo nella propria vita lavorativa e la tecnologia ha reso possibile questo aumento di accessibilità alle informazioni. Di contro, è emerso che 2 intervistati su 3 hanno subito dei cambiamenti nella loro vita personale e lavorativa a causa del sovraccarico delle informazioni[5]. Ancora, tale sovraccarico esige la capacità di multitasking nel lavoratore; si tratta dello svolgimento di più azioni contemporaneamente e su diversi dispositivi (telefono, computer, segreteria telefonica, iPad); concetto utilizzato principalmente per indicare le attività di un computer e che viene traslato sul lavoratore odierno. David Mayer dichiarava che il lavoratore non essendo in grado di concentrarsi completamente, questa mancanza costa alla società il 20-40% in termini di potenziale di efficienza[6]. Altro costo significativo che l’azienda sostiene a causa del technostress è il burnout; una vera e propria minaccia. Moorehead e Griffin hanno dato una definizione di tale manifestazione dicendo che: “il burnout è una sensazione generale di stanchezza che si sviluppa quando una persona sperimenta contemporaneamente troppa tensione e poche fonti di soddisfazione”[7]. Esso si manifesta attraverso fastidi, grandi o piccoli, da fattori esterni: il lavoratore può manifestarlo diventando introverso e isolato, con una grave depressione, aumento o eccesso di cibo, abuso di alcool o altre sostanze che alterano l’umore e ancora con malattie croniche (pressione alta e mal di testa)[8]. Ravi Tangri, MSc, MBA[9] sostengono che il costo delle aziende americane è più di 300 miliardi di dollari all’anno in perdita di produttività, assenteismo (19%), incidenti (60%), turnover del personale (40%), sanità (10%), legalità, tasse per le assicurazioni e premi ai lavoratori. Dati che si collimano con quanto dichiarato dalle ricerche dell’American Istitute of Stress[10].
Appaiono evidenti gli elevati costi che le organizzazioni devono sostenere a causa del technostress, per tale motivo sono stati progettati e implementati dei programmi di intervento. Si tratta di piani d’azione che necessitano il pieno appoggio dei top manager; diversamente aumenterà l’assenteismo e il turnover dei dipendenti, le organizzazioni continueranno a sostituire lavoratori stressati che vanno via per trovare un altro impiego, ancora, accresceranno i costi derivanti dalle cure mediche (sempre più dipendenti ricevono aiuto per problemi legati al sonno, alla depressione, al nervosismo, all’ansia ecc.) e da costi generici di non irrilevante valore.
Per affrontare la questione, le organizzazioni devono assumersi l’impegno di gestire tale condizione, iniziando con l’identificazione del problema e, successivamente dovranno:
  • Progettare piani formativi per le nuove ICT e i nuovi sistemi comunicativi - organizzativi. 
  •  Agevolare il coinvolgimento dei dipendenti[11] 
Per quanto concerne l’agevolazione del coinvolgimento, i dipendenti devono anzitutto conoscere i sistemi – essi si sentono meno incerti circa le capacità e le funzionalità delle nuove ICT impiegate dall’organizzazione quando vengono formati in merito alle funzionalità degli strumenti da usare, cosicché essi possano sentirsi più sicuri di padroneggiare il loro ambiente lavorativo riducendo la paura di perdere il lavoro; inoltre, i lavoratori devono poter esprimere la loro posizione in merito a determinate questioni – da ciò ne risulta una più attenta e accurata definizione delle sue esigenze affinché si senta meno succube del sovraccarico e della complessità derivante dall’informazione; per ultimo, un elevato coinvolgimento produce maggiore comunicazione e collaborazione fra lavoratori e sistemi informativi – la collaborazione tra i professionisti dei IS e i dipendenti produce maggiore raccordo tra i due, maggiore soddisfazione dal rapporto che ne deriva e dal supporto nella fase iniziale. Quindi, appare chiaro che maggiore controllo e prevedibilità riduce lo stress da ICT.  
Dall’altra parte, anche i singoli lavoratori potranno agire con accortezza per tutelarsi dal technostress[12]:
  • Imparando a rilassarsi. Il rilassamento è un ottimo modo per gestire lo stress: prendere regolarmente delle vacanze, delle pause durante il giorno, e ancora la meditazione e la visualizzazione sono delle azioni che possono alleviare lo stress e rinfrescare la mente durante la giornata.
  • Gestendo il proprio tempo e organizzando il lavoro in base alle priorità. Se il dipendente riesce ad organizzare e gestire bene il suo tempo è meno probabile che a lungo andare sia stressato a causa delle molteplici scadenze e del multitasking necessario per realizzare i mille progetti. Fare liste connesse alle priorità può aiutare a gestire il tempo.
  • Dedicandosi all’esercizio fisico e curando l’alimentazione per garantire condizioni ottimali al proprio corpo. Questa opzione può influire positivamente anche sul sonno.
  • Mantenendo un atteggiamento positivo. Coltivare il senso dell’umorismo.
  • Prefiggendosi degli obiettivi realistici. Nessuno può essere esperto su tutto; cercare di essere esperti su tutto è irrazionale e può provocare carico di stress
Il Techcnostress in territorio cinese e non solo.
Con la diffusione dell’IT e di internet in tutta la Cina, il technostress è diventato un grave problema per gli utenti e per i professionisti dell’IT, producendo effetti sia sulla salute mentale dei lavoratori che sulla loro produttività. I lavoratori cinesi sono circondati, spesso sopraffatti, dalla tecnologia moderna.
Le prime grandi aziende cinesi, che rappresentano il 25% del PIL della Cina, hanno investito pesantemente in nuove applicazione IT; Pechino è diventato il più famoso centro tecnologico in cui oltre il 70% delle imprese si impegnano per lo sviluppo delle produzioni e dei servizi IT.
Secondo un sondaggio sulla salute dei colletti bianchi condotto da Beijing Baizhong Medicare Center di Zhongguancun  emerge che il 46% degli intervistati dichiara di avere una lieve disfunzione mentale, il 52.3% di provare ansia mentale e il 37.1% di avere difficoltà nelle relazioni interpersonali[1].
Nonostante i parziali benefici ottenuti dall’uso delle tecnologie, i lavoratori cinesi spesso si sentivano frustrati e in difficoltà nel loro adattarsi rapidamente all’avanzamento e alla complessità tecnologica. Difficoltà che può causare non solo problemi fisici ma anche burnout, insoddisfazione professionale, esaurimento emotivo.
Gli studiosi Qiang Tu, Kanliang Wang e Qin Shu hanno applicato una riformulazione del metodo di misurazione[2] usato da altri autori per il contesto statunitense. Tale riformulazione si adattava alla realtà cinese e produceva un sondaggio su un campione causale di 700 dipendenti di 12 aziende cinese (5 del settore dell’IT, 3 del settore bancario e finanza, 2 settore manufatti, 1 del settore immobiliare e 1 dei traporti) con sede a Xi’an, Shenzhen e Shanghai. Le componenti considerate hanno rivelato che il sovraccarico derivante dalla tecnologia ha un effetto positivo sulla produttività individuale; utilizzare nuove tecnologie, spinge i dipendenti cinesi a lavorare più velocemente e ad essere più produttivi. Risulta che la stabilità della cultura cinese genera dipendenti in grado di supportare il sovraccarico del lavoro, piuttosto che lasciarlo.
Ma nel lungo termine, il technostress provoca effetti negativi sulla produzione, per tale motivo si progettano delle azioni di intervento[3]:

  • le aziende cinesi dovrebbero introdurre le tecnologie razionalmente e gradualmente
  • sono necessarie delle ricompense per qualsiasi sforzo cognitivo del lavoratore
  •  alleviare il sovraccarico tecnologico dei dipendenti con maggiore alfabetizzazione informatica costruendo un buon supporto tecnologico per garantire aiuto tempestivo a tutti i dipendenti
  • la preventiva formazione in rapporto al livello di alfabetizzazione informatica di ogni dipendente
  • partecipazione diretta per preparare i dipendenti ai futuri cambiamenti
  • sistemi di comunicazione più efficienti tra i dipendenti
  • formazione tecnica adeguata
  • tecnologia che fornisca un appoggio tempestivo

Tuttavia, gli studiosi hanno notato che le aziende cinesi che hanno offerto ricompense ai dipendenti per aumentare la loro alfabetizzazione informatica spesso hanno ottenuto una reazione opposta a quella sperata, causando ancora più technostress.
Dunque, arrivano alla conclusione che un livello basso di technostress può essere positivo per la produzione dei dipendenti, al contrario se esso è troppo elevato diventa controproducente come in qualsiasi altro contesto lavorativo studiato.
Uno studio[4] condotto dalla  Randstad Wormonitor è stato possibile indagare sul rapporto del lavoratore italiano con la tecnologia. I dati relativi alla “connettività stanziale” testimoniano che internet è diventato uno strumento largamente diffuso nelle quotidiane attività dell’italiano con il 75%, mentre le vette più alte spettano agli abitanti di India con il 93%, Cina il 93% e Malaysia 89%.
Inoltre nonostante la ricca varietà di strumenti che permettono la comunicazione virtuale, il 73% degli italiani dichiara di preferire la relazione diretta; la comunicazione face to face permette di costruire una ricca e completa relazione sia sul piano emozionale che su quello funzionale.
Come appare anche da altre ricerche, la tecnologia invece di favorire la realizzazione degli obiettivi rischia di diventare un ostacolo - se non è usata con cognizione di causa! 

Bibliografia.
  1. Monideepa Tarafdar, Qiang  Tu, Bhanu S.Ragu-Nathan, T.S. Ragu-Nathan “The Impact of Technostress on Role Stress and Productivity.” Journal of Management Information Systems Vol.24, No.1 2007 pp. 301-328
  2. Monideepa Tarafdar, Qiang Tu, And T.S. Ragu-Nathan “Impact of Technostress on End-User Satisfaction and Performance”, Journal of Management Information Systems. Winter 2010/11, Vol.27, No.3, pp 303-334    
  3. Peter E. Brillhart “Technostress in the Workplace Managing Stress in the Electronic Workplace”.  The Journal of American Academy of Business, Cambridge. Settembre 2004. pp. 302-307
  4. Qiang Tu, Kanliang Wang, Qin Shu “Computer-related technostress in China”. Communications of the ACM. Aprile 2005/Vol.48, No.4 pp. 77-81
  5.   http://www.professionals.randstad.it/chi-siamo-randstad-professionals/news-and-events/randstad-wormonitor-2012-italiani-sempre-piu-stressati-da-smartphone-ed-e-mail/

sabato 30 novembre 2013

Il Knowledge Sharing.

La lezione è quasi terminata e il prof ci anticipa che caricherà un file da leggere per la lezione successiva, sulla piattaforma Docebo dell’Università. Si tratta di un articolo scientifico sul “Knowledge Sharing”.
Non era la prima volta che mi avvicinavo a questa pratica di condivisione, ma era la prima volta che leggevo una ricerca scientifica sul tema.
Mi feci una domanda a cui il documento dette risposta: cosa spinge la gente a condividere la propria conoscenza all’interno dell’organizzazione?
Gli autori, ripresi nell’articolo, mi diedero diverse risposte:

  • processi di scambio determinata da influenze sociali,
  • collettivismo, reputazione, gerarchia, orientamento al gruppo di appartenenza,
  • obiettivi di aggiornamento.

Quella che più mi ha suscitato particolare interesse considera il KS parafrasandolo in termini di “azione sociale”; processo decisionale che viene mosso da due razionalità, economica da una parte e pro-sociale dall’altra. La prima intesa come variabile utilitaristica-egoistica, la seconda come variabile altruistica.
Ma esiste veramente la variabile esclusivamente altruistica e una esclusivamente economica? Nella società in cui ci troviamo, possiamo veramente parlare di altruismo?? All’interno di un’organizzazione??
Io credo proprio di no! Probabilmente si parla di un altruismo apparente; non si potrà parlare dell’altruismo sano e puro che un buon cristiano ha nei confronti di un suo fratello.
Ma perché?
Perché di mezzo ci sono interessi!
È un po’ quello che afferma la Social Exchange Theory; la scelta di condivisione è mossa dalla valutazione costi/benefici, quindi solo se si ha un ritorno di conoscenza e socializzazione si sarà disposti a condividere ciò che è proprio. 
Se però tralasciamo i motivi che spingono alla condivisione, il Knowledge Sharing permette di dare un valore aggiunto di non poca importanza. La condivisione permette di CREARE, INNOVARE, RINNOVARE. 

lunedì 18 novembre 2013

Tanto la pensione non la prenderò mai!

Nel nostro Paese, spesso si sente parlare di Welfare State (in alternativa “Stato Sociale”) con cui s’intende l’impegno che lo Stato si assume nel ridurre le disuguaglianze sociali, offrendo al cittadino svariate tutele sulla disoccupazione, assistenza sanitaria, istruzione, accesso alle risorse culturali e sulla previdenza sociale.
Era l’anno 1898 quando nasce la CNAS - “Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali” - occupandosi di previdenza sociale per la tutela volontaria dell’invalidità e la vecchiaia degli operai; più tardi, invece, nel 1919 cambia la natura dell’assicurazione che diventa obbligatoria per tutti i lavoratori. Nel 1933 la CNAS si trasforma nell’ente pubblico INPS (Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale) cominciando a sperimentare le prime iniziative a tutela del cittadino in caso di disoccupazione, tubercolosi e difficoltà economiche comprovate. 
È dal 1939 che comincia il risentito “sali e scendi” (più sali che scendi) dell’età necessaria per il conseguimento della pensione. A quei tempi, questa veniva percepita a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne. Nel 1968-69, da un sistema retributivo (che teneva conto dei contributi versati negli ultimi – prima 5 e poi 10 - anni di lavoro) si passa ad un sistema contributivo: metodo che permette di calcolare la pensione in corrispondenza ai contributi versati in tutti gli anni di lavoro. È il 1992 e l’età pensionabile aumenta: 65 anni per gli uomini e 60 per le donne.
Lo schema della Legge Fornero, a due anni di distanza dalla sua approvazione, continua ad essere valido; la logica di calcolo, precisamente quella rivolta ai dati anagrafici, è costantemente aggiornata secondo l’andamento della speranza di vita. Questo vuol dire che più gli anziani fanno gli “eterni giovani” e più aumenta la soglia di accesso alla pensione. Inoltre la riforma prevede solo ritocchi all’insù, dunque possiamo aspettarci solo un aumento di lavoratori over 50 che under 30.
Ad oggi, non è molto nitida la questione pensione; permane un preoccupante silenzio su questo tema a cui presto (si spera) dovrà porre fine il Ministro del Lavoro Enrico Giovannini.
La proposta più recente chiede di agire secondo flessibilità in uscita; così da consentire l’accesso alla pensione in un arco di età compreso tra i 62 e i 70 anni, con la condizione che si abbiano maturato 35 anni di contributi e si accetti una penalità massima dell’8% sull’assegno mensile. E ancora, flessibilità che permette ad alcuni lavoratori, sia essi uomini che donne, che abbiamo raggiunto certi requisiti di età e contributi versati di uscire dal mercato del lavoro in modo anticipato ma con delle penalità sulla quota mensile da percepire.
Adesso mi chiedo: data la condizione di crisi, quanti lavoratori saranno disposti ad uscire dal mondo lavorativo con una riduzione mensile??!
Appare chiaro come questa condizione possa agire negativamente sulla vita lavorativa di un giovane; il minor numero di pensionamenti degli anni precedenti, si ribalta contro quel (quasi) 40% di giovani italiani che risultano disoccupati, ritardando sempre di più il loro inserimento nel mondo del lavoro. A questo bisogna aggiungere la possibilità di proseguimento al lavoro di determinate categorie lavorative fino a 70 anni che oltretutto vengono anche premiati per il loro ulteriore lavoro, che è certamente lodevole ma dannoso per la categoria giovanile.  
Ma perché preoccuparsi tanto… “tanto la pensione non la prenderò mai!” 


domenica 6 ottobre 2013

Il lavoro al tempo di internet. I Social Network.


Giacomo è un ragazzo come tanti che, dopo aver preso la maturità in ragioneria,  ha chiesto al padre di aiutarlo a cercare un lavoro. Salvatore, il padre, chiede al suo amico Mario, ragioniere di professione e con uno studio ben avviato in una piccola cittadina sicula, di accompagnare il figlio nel mercato del lavoro insegnandogli i “trucchi del mestiere” (oggi lo chiamiamo tutoring… quanto siamo diventati complicati!). L’amico Mario accetta con molto piacere la richiesta; d’altronde ha visto crescere quel ragazzino che si accinge a diventare un uomo. Ribadisco che “Giacomo è un ragazzo come tanti”, si certo… forse nel 1980!
Il figlio che ha studiato, il padre, l’amico, un pizzico di buona volontà… elementi sufficienti per imparare a fare un mestiere dignitoso e apprezzabile.
Ahimè erano altri tempi quelli! Oltre a svariati cambiamenti sociali estremamente evidenti, pare che sia cambiato anche il modo in cui i giovani cercano lavoro!
Inviare il proprio Curriculum Vitae tramite la Rete è diventata un’operazione così frequente e facile che ormai ci siamo dimenticati i tempi di Giacomo; dopotutto noi non li abbiamo neanche visti! In aggiuta, dalla velocità con cui andiamo, credo proprio che passata un’altra manciata di anni anche il CV diventerà uno strumento obsoleto.
A confermare la mia idea è uno dei principali risultati emersi dall’indagine “Il lavoro ai tempi del social recruiting e della digital reputation”, fortemente voluta e condotta dall’Agenzia del Lavoro Adecco in collaborazione con l’Università Cattolica di Milano (realizzata su un campione di 479 selezionatori e 13.283 candidati). Tra i candidati che cercano un lavoro per mezzo della Rete, ben il 94% si appoggia ai siti di lavoro, il 39% alle App (Applicazioni per mobile device), il 30% usa Facebook e solo il 26% si serve di Twitter. Dall’altro lato anche i Responsabili di Risorse Umane si avvalgono della Rete per scovare candidati che abbiamo hard e soft skill necessarie per ricoprire un preciso posto di lavoro vacante; LinkedIn risulta il loro Social Network preferito con il 42%, seguito da Facebook con il 29% e Twitter con il 9%. E dov’è la percentuale dei candidati che usa LinkedIn per cercare un lavoro?? Da questi dati io leggo un paradosso: i selezionatori usano questo social network per cercare personale da reclutare e questi giovani non lo usano?? Beh… trovatela voi una risposta.
Altro elemento che sta acquistando sempre più terreno è quella che viene definita web o digital reputation, in altre parole si tratta della nostra reputazione on line. Avete mai provato a digitare il vostro nome sulla barra di ricerca di Google e poi premere avvio? Io vi consiglio di farlo; è sempre bene sapere che materiale gira in Rete sotto il vostro nome.
Ritornando all’indagine sopra citata, è emerso che un sorprendente 70% dei selezionatori intervistati hanno dichiarato di usare il web per cercare informazioni sui candidati, operazione che permette di ottenere maggiori elementi di valutazione e di questi ben il 12% ha dichiarato di essere stato condizionato dalla loro web reputation e di averli, quindi, scartati.
I Social Network ergono sulla dimensione sociale da un lato e quella individuale dall’altro. La prima ci permette di creare reti sociali riconducibili anche al mondo del lavoro e non solo alla nostra realtà strettamente amicale, la seconda invece ci permettere di “lasciare il segno”, appare sempre più forte il bisogno di raccontarsi tramite la rete, di costruire la nostra reputazione on line.
Dati i risultati ottenuti dall’indagine e l’uso sempre più frequente dei Social Network, la condizione ideale sarebbe quella di usarli con coscienza. 
E chi lo sa, tra quel 12% ci potrebbe essere uno di noi! 
Note: Di seguito Vi propongo alcuni - dei più affidabili - siti internet in cui cercare offerte di lavoro e importanti informazioni sul mercato del lavoro nazionale ed europeo.
·        www.cliclavoro.gov.it
(per il Mercato del Lavoro Italiano)
·        https://ec.europa.eu/eures
(per il Mercato del Lavoro Europeo)
·        www.cercolavoro.com
·        www.jobmeeting.it
·        www.lavoroeconcorsi.com
·        www.infojobs.it
·        www.circuitolavoro.it
·        www.eurocultura.it
·        www.monster.it
E anche qui vale la regola “chi cerca trova”, dunque non mi resta che augurarvi… buona navigazione :-)