Nel
nostro Paese, spesso si sente parlare di Welfare
State (in alternativa “Stato Sociale”) con cui s’intende l’impegno che lo
Stato si assume nel ridurre le disuguaglianze sociali, offrendo al cittadino
svariate tutele sulla disoccupazione, assistenza sanitaria, istruzione, accesso
alle risorse culturali e sulla previdenza sociale.
Era
l’anno 1898 quando nasce la CNAS - “Cassa Nazionale per le Assicurazioni
Sociali” - occupandosi di previdenza sociale per la tutela volontaria dell’invalidità
e la vecchiaia degli operai; più tardi, invece, nel 1919 cambia la natura
dell’assicurazione che diventa obbligatoria per tutti i lavoratori. Nel 1933 la
CNAS si trasforma nell’ente pubblico INPS (Istituto Nazionale per la Previdenza
Sociale) cominciando a sperimentare le prime iniziative a tutela del cittadino
in caso di disoccupazione, tubercolosi e difficoltà economiche comprovate.
È
dal 1939 che comincia il risentito “sali e scendi” (più sali che scendi) dell’età
necessaria per il conseguimento della pensione. A quei tempi, questa veniva
percepita a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne. Nel 1968-69, da un
sistema retributivo (che teneva conto dei contributi versati negli ultimi –
prima 5 e poi 10 - anni di lavoro) si passa ad un sistema contributivo: metodo
che permette di calcolare la pensione in corrispondenza ai contributi versati in
tutti gli anni di lavoro. È il 1992 e l’età pensionabile aumenta: 65 anni per
gli uomini e 60 per le donne.
Lo schema della
Legge Fornero, a due anni di distanza dalla sua approvazione, continua ad
essere valido; la logica di calcolo, precisamente quella rivolta ai dati
anagrafici, è costantemente aggiornata secondo l’andamento della speranza di
vita. Questo vuol dire che più gli anziani fanno gli “eterni giovani” e più
aumenta la soglia di accesso alla pensione. Inoltre la riforma prevede solo
ritocchi all’insù, dunque possiamo aspettarci solo un aumento di lavoratori over 50 che under 30.
Ad
oggi, non è molto nitida la questione pensione; permane un preoccupante
silenzio su questo tema a cui presto (si spera) dovrà porre fine il Ministro
del Lavoro Enrico Giovannini.
La
proposta più recente chiede di agire secondo flessibilità in uscita; così da consentire l’accesso alla pensione
in un arco di età compreso tra i 62 e i 70 anni, con la condizione che si
abbiano maturato 35 anni di contributi e si accetti una penalità massima
dell’8% sull’assegno mensile. E ancora, flessibilità che permette ad alcuni
lavoratori, sia essi uomini che donne, che abbiamo raggiunto certi requisiti di
età e contributi versati di uscire dal mercato del lavoro in modo anticipato ma
con delle penalità sulla quota mensile da percepire.
Adesso
mi chiedo: data la condizione di crisi, quanti lavoratori saranno disposti ad
uscire dal mondo lavorativo con una riduzione mensile??!
Appare
chiaro come questa condizione possa agire negativamente sulla vita lavorativa di
un giovane; il minor numero di pensionamenti degli anni precedenti, si ribalta
contro quel (quasi) 40% di giovani italiani che risultano disoccupati,
ritardando sempre di più il loro inserimento nel mondo del lavoro. A questo
bisogna aggiungere la possibilità di proseguimento al lavoro di determinate
categorie lavorative fino a 70 anni che oltretutto vengono anche premiati per
il loro ulteriore lavoro, che è certamente lodevole ma dannoso per la categoria
giovanile.
Ma
perché preoccuparsi tanto… “tanto la
pensione non la prenderò mai!”
Nessun commento:
Posta un commento