sabato 30 novembre 2013

Il Knowledge Sharing.

La lezione è quasi terminata e il prof ci anticipa che caricherà un file da leggere per la lezione successiva, sulla piattaforma Docebo dell’Università. Si tratta di un articolo scientifico sul “Knowledge Sharing”.
Non era la prima volta che mi avvicinavo a questa pratica di condivisione, ma era la prima volta che leggevo una ricerca scientifica sul tema.
Mi feci una domanda a cui il documento dette risposta: cosa spinge la gente a condividere la propria conoscenza all’interno dell’organizzazione?
Gli autori, ripresi nell’articolo, mi diedero diverse risposte:

  • processi di scambio determinata da influenze sociali,
  • collettivismo, reputazione, gerarchia, orientamento al gruppo di appartenenza,
  • obiettivi di aggiornamento.

Quella che più mi ha suscitato particolare interesse considera il KS parafrasandolo in termini di “azione sociale”; processo decisionale che viene mosso da due razionalità, economica da una parte e pro-sociale dall’altra. La prima intesa come variabile utilitaristica-egoistica, la seconda come variabile altruistica.
Ma esiste veramente la variabile esclusivamente altruistica e una esclusivamente economica? Nella società in cui ci troviamo, possiamo veramente parlare di altruismo?? All’interno di un’organizzazione??
Io credo proprio di no! Probabilmente si parla di un altruismo apparente; non si potrà parlare dell’altruismo sano e puro che un buon cristiano ha nei confronti di un suo fratello.
Ma perché?
Perché di mezzo ci sono interessi!
È un po’ quello che afferma la Social Exchange Theory; la scelta di condivisione è mossa dalla valutazione costi/benefici, quindi solo se si ha un ritorno di conoscenza e socializzazione si sarà disposti a condividere ciò che è proprio. 
Se però tralasciamo i motivi che spingono alla condivisione, il Knowledge Sharing permette di dare un valore aggiunto di non poca importanza. La condivisione permette di CREARE, INNOVARE, RINNOVARE. 

lunedì 18 novembre 2013

Tanto la pensione non la prenderò mai!

Nel nostro Paese, spesso si sente parlare di Welfare State (in alternativa “Stato Sociale”) con cui s’intende l’impegno che lo Stato si assume nel ridurre le disuguaglianze sociali, offrendo al cittadino svariate tutele sulla disoccupazione, assistenza sanitaria, istruzione, accesso alle risorse culturali e sulla previdenza sociale.
Era l’anno 1898 quando nasce la CNAS - “Cassa Nazionale per le Assicurazioni Sociali” - occupandosi di previdenza sociale per la tutela volontaria dell’invalidità e la vecchiaia degli operai; più tardi, invece, nel 1919 cambia la natura dell’assicurazione che diventa obbligatoria per tutti i lavoratori. Nel 1933 la CNAS si trasforma nell’ente pubblico INPS (Istituto Nazionale per la Previdenza Sociale) cominciando a sperimentare le prime iniziative a tutela del cittadino in caso di disoccupazione, tubercolosi e difficoltà economiche comprovate. 
È dal 1939 che comincia il risentito “sali e scendi” (più sali che scendi) dell’età necessaria per il conseguimento della pensione. A quei tempi, questa veniva percepita a 60 anni per gli uomini e 55 per le donne. Nel 1968-69, da un sistema retributivo (che teneva conto dei contributi versati negli ultimi – prima 5 e poi 10 - anni di lavoro) si passa ad un sistema contributivo: metodo che permette di calcolare la pensione in corrispondenza ai contributi versati in tutti gli anni di lavoro. È il 1992 e l’età pensionabile aumenta: 65 anni per gli uomini e 60 per le donne.
Lo schema della Legge Fornero, a due anni di distanza dalla sua approvazione, continua ad essere valido; la logica di calcolo, precisamente quella rivolta ai dati anagrafici, è costantemente aggiornata secondo l’andamento della speranza di vita. Questo vuol dire che più gli anziani fanno gli “eterni giovani” e più aumenta la soglia di accesso alla pensione. Inoltre la riforma prevede solo ritocchi all’insù, dunque possiamo aspettarci solo un aumento di lavoratori over 50 che under 30.
Ad oggi, non è molto nitida la questione pensione; permane un preoccupante silenzio su questo tema a cui presto (si spera) dovrà porre fine il Ministro del Lavoro Enrico Giovannini.
La proposta più recente chiede di agire secondo flessibilità in uscita; così da consentire l’accesso alla pensione in un arco di età compreso tra i 62 e i 70 anni, con la condizione che si abbiano maturato 35 anni di contributi e si accetti una penalità massima dell’8% sull’assegno mensile. E ancora, flessibilità che permette ad alcuni lavoratori, sia essi uomini che donne, che abbiamo raggiunto certi requisiti di età e contributi versati di uscire dal mercato del lavoro in modo anticipato ma con delle penalità sulla quota mensile da percepire.
Adesso mi chiedo: data la condizione di crisi, quanti lavoratori saranno disposti ad uscire dal mondo lavorativo con una riduzione mensile??!
Appare chiaro come questa condizione possa agire negativamente sulla vita lavorativa di un giovane; il minor numero di pensionamenti degli anni precedenti, si ribalta contro quel (quasi) 40% di giovani italiani che risultano disoccupati, ritardando sempre di più il loro inserimento nel mondo del lavoro. A questo bisogna aggiungere la possibilità di proseguimento al lavoro di determinate categorie lavorative fino a 70 anni che oltretutto vengono anche premiati per il loro ulteriore lavoro, che è certamente lodevole ma dannoso per la categoria giovanile.  
Ma perché preoccuparsi tanto… “tanto la pensione non la prenderò mai!”